Federico Moccia è uno di quei nomi che non si dimenticano facilmente. Non solo perché è legato a romanzi che hanno fatto battere il cuore a un’intera generazione — come Tre metri sopra il cielo e Ho voglia di te — ma perché dietro quelle parole c’è un mondo. Un mondo fatto di sentimenti forti, di sguardi rubati, di Vespe che corrono sotto il cielo di Roma e di lucchetti agganciati ai ponti, diventati simbolo globale dell’amore eterno.
Classe 1963, Federico Moccia non è soltanto uno scrittore di successo. È anche regista, sceneggiatore, autore televisivo e teatrale. Un uomo di narrazione a tutto tondo, capace di muoversi con disinvoltura tra diversi linguaggi, rimanendo sempre fedele a sé stesso: sincero, emotivo, diretto. E profondamente italiano.
Ma per capire davvero Federico Moccia, bisogna fare un passo indietro. Suo padre era Giuseppe Moccia, in arte Pipolo, colonna portante del cinema comico italiano. In coppia con Castellano ha firmato film cult come Il ragazzo di campagna, Innamorato pazzo, Il bisbetico domato e molti altri. Federico è cresciuto respirando copioni, dialoghi, battute e sogni scritti a macchina. Un’eredità artistica importante, che però ha sempre voluto trasformare in qualcosa di suo, autentico.
Il suo esordio letterario, Tre metri sopra il cielo, nasce quasi in sordina nel 1992 — con un’auto-pubblicazione che all’epoca sembrava un gesto di coraggio. Ma sarà la riedizione nel 2004, accompagnata dal film con Riccardo Scamarcio e Katy Saunders, a renderlo un vero fenomeno culturale. Moccia ha dato voce a un sentimento adolescenziale che nessuno raccontava più: assoluto, esagerato, vivo. Ha riscritto il vocabolario dell’amore per milioni di ragazzi, in Italia e nel mondo.
Nel suo percorso non mancano nemmeno successi televisivi. Federico Moccia è stato autore di programmi cult come Non è la Rai, I ragazzi della 3ª C, College e I Cesaroni — serie che hanno saputo raccontare l’Italia più giovane, più spensierata, ma anche più fragile. La sua penna ha sempre saputo cogliere il dettaglio che fa la differenza, il gesto che diventa simbolo, la parola che resta impressa nella memoria.
LEGGI ANCHE: LAURA LEUZZI E IL SUO LIBRO “LE AVVENTURE DI YUMIKO: L’OSPEDALE”
A teatro, ha scritto e diretto opere che portano sul palco la stessa intensità emotiva dei suoi romanzi. E dietro le quinte, non ha mai smesso di scrivere, osservare, ascoltare. Oggi, Federico Moccia è molto più di un autore per adolescenti. È un narratore trasversale, capace di parlare a generazioni diverse con lo stesso linguaggio semplice ma profondo, diretto ma universale. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 15 lingue, i suoi film hanno sbancato i botteghini, i suoi personaggi sono diventati icone. E soprattutto, ha dimostrato che parlare d’amore non è mai fuori moda — se lo fai con sincerità.
In questa intervista esclusiva, ci racconta il dietro le quinte del suo lavoro, i ricordi familiari, i progetti futuri e il modo in cui, ancora oggi, riesce a parlare al cuore di chi legge.

L’INTERVISTA
Buongiorno Federico, e grazie per essere con noi oggi. Sei scrittore, regista, sceneggiatore, autore teatrale e televisivo… da dove nasce tutta questa voglia di raccontare?
Cara Ilaria, grazie a te per l’invito. Penso che la voglia di raccontare storie sia qualcosa che ho sempre avuto dentro. Mio padre era un regista e sceneggiatore, quindi sono cresciuto in un ambiente in cui le storie venivano vissute quasi quotidianamente. Raccontare per me è una necessità, un modo per capire il mondo, ma anche per dare voce a sentimenti universali.
LEGGI ANCHE: “FAIR PLAY FOR LIFE” A ROMA, GRANDE SUCCESSO E TRA I PREMIATI IL GIORNALISTA SICILIANO MICHELE BRUCCHERI
Sei cresciuto in una famiglia dove il cinema era di casa. Tuo padre, Giuseppe Moccia – in arte Pipolo – è stato uno dei grandi nomi della commedia italiana. Quanto ha influenzato la tua carriera?
Tantissimo. Mio padre ha scritto e diretto film che hanno fatto la storia del cinema italiano, spesso in coppia con Castellano. Da piccolo lo vedevo lavorare ai copioni, ascoltavo le sue idee, respiravo quel mondo fatto di battute, emozioni e ritmo narrativo. Nonostante non abbia mai voluto impormi una direzione, è stato inevitabile che io assorbissi quella passione per la scrittura e la narrazione.
Hai mai sentito il peso di essere “il figlio di Pipolo”? Ti è mai stato chiesto di “dimostrare” qualcosa in più per questo?
No. Ma quando porti un cognome legato al cinema, c’è sempre chi pensa che il tuo percorso sia stato facilitato. Ma chi mi conosce bene sa che ho fatto tanta gavetta. Ho cominciato da assistente, ho scritto per la TV, ho autopubblicato il mio primo libro… Non ho mai voluto vivere all’ombra di mio padre, ma neanche rinnegarne l’eredità. Anzi, è un immenso onore.
C’è un consiglio di tuo padre che ti è rimasto particolarmente impresso?
Sì, più di uno… ovviamente. Ma uno in particolare: “Puoi raccontare qualunque cosa, ma devi farlo con sincerità”. Mio padre era un grande osservatore dell’animo umano. Mi ha insegnato che dietro ogni storia, anche la più leggera, deve esserci verità. È un principio che cerco di seguire in ogni cosa che scrivo, dai libri ai film.
Sei anche autore televisivo e teatrale. Come cambia il tuo approccio nei diversi linguaggi?
Ogni mezzo ha il suo ritmo, le sue regole. In TV devi pensare per immagini e tempi veloci, nel teatro il dialogo è tutto, mentre nel romanzo puoi scavare nella psicologia dei personaggi. Ma alla base c’è sempre una cosa: la verità emotiva. Se il sentimento che racconti è autentico, funziona ovunque.

Federico, tra una penna e una telecamera… cosa scegli? E perché?
Domanda difficile. La penna è l’inizio di tutto. È con lei che creo i personaggi, le loro emozioni, le storie. È intima, silenziosa, personale. Scrivere è come parlare sottovoce con qualcuno che ti ascolta davvero. Ma la telecamera… la telecamera è la magia che trasforma le parole in immagini, in sguardi, in movimento. È il passaggio dal sogno alla realtà. Se proprio devo scegliere, scelgo la penna. Perché senza di lei non ci sarebbe nulla da raccontare. La telecamera arriva dopo, quando la storia è già nata. Ma è la penna che accende la scintilla.
I tuoi protagonisti sono stati spesso giovani alle prese con l’amore, la ribellione, la crescita. Come mai?
Non abbandonerò mai completamente l’universo adolescenziale, perché è lì che tutto inizia: i sogni, le paure, le prime volte.
LEGGI ANCHE: Michele Bruccheri intervista l’attrice Daniela Poggi e la cantautrice Mariella Nava
Federico, oltre ai molteplici romanzi, molti ti ricordano per serie iconiche come College e I ragazzi della 3ª C. Ce ne vuoi parlare?
Con piacere. I ragazzi della 3ª C è stata un’avventura incredibile. Era la fine degli anni ’80, e con quella serie abbiamo portato in TV il mondo dei liceali italiani in modo fresco, ironico e molto realistico per l’epoca. Io ero tra gli autori e collaboravo alla scrittura con Bruno Corbucci e altri professionisti del settore. Era un prodotto pop, ma con tanto cuore.
Continua.
College, invece, è arrivato subito dopo, e ha consolidato quel filone: giovani, amicizie, amori e la vita tra i banchi — ma stavolta ambientato in un’accademia militare. Anche lì ho lavorato alla sceneggiatura, e il successo è stato clamoroso. Ancora oggi mi capita di incontrare persone che ricordano quelle serie con affetto, come se facessero parte della loro adolescenza.
Si può dire che quelle serie abbiano anticipato temi e atmosfere che poi hai esplorato nei tuoi romanzi?
Esattamente. Lì ho imparato a raccontare i giovani, a capirne i linguaggi, i sogni, le contraddizioni. È stato un laboratorio creativo importantissimo. E in un certo senso, personaggi come Step o Babi sono nati proprio lì, da quell’osservazione costante del mondo giovanile che avevo cominciato con la TV.
Hai segnato un’epoca con libri come Tre metri sopra il cielo e Ho voglia di te. Ti aspettavi quel successo?
No, sinceramente no. Il primo libro lo autopubblicai nel 1992, e passò praticamente inosservato. Poi, anni dopo, diventò un fenomeno. Quando ho iniziato a scrivere non pensavo a vendite o numeri: volevo solo raccontare una storia d’amore vera, vissuta, con emozioni forti. Forse è proprio quella sincerità che ha colpito i lettori.
Molti, tutt’ora, ti identificano come “l’autore dei lucchetti dell’amore”. Cosa pensi di quel simbolo che ormai è diventato globale?
È una cosa incredibile, e sinceramente commovente. Vedere coppie da tutto il mondo che attaccano un lucchetto a un ponte, ispirate da Ho voglia di te, è una delle soddisfazioni della mia carriera. Un gesto semplice che racconta un sentimento eterno. Questo è il potere della narrativa: diventare realtà.
LEGGI ANCHE: CALTANISSETTA, DACIA MARAINI: «LA LETTURA È FORMATIVA E CREA INTELLIGENZA»
Cosa ha rappresentato per te la tua famiglia d’origine, sotto un profilo interiore?
La mia famiglia è stata il mio primo mondo, il mio primo linguaggio emotivo. Dentro casa mia c’era tanta creatività, ma anche tanta disciplina. Mio padre era un uomo molto brillante, ironico, ma anche esigente. Non era uno che faceva molti complimenti, però se ti diceva “questo funziona”, sapevi che era sincero. Da lui ho imparato il rigore nel mestiere e la libertà nell’immaginazione. Mia madre era l’equilibrio, il calore, la delicatezza. Era quella che ti guardava anche quando non dicevi nulla e capiva tutto. Credo di aver preso da lei la parte più emotiva, più attenta ai dettagli del cuore.

Prosegui.
Interiormente, la mia famiglia mi ha dato radici forti. Mi ha insegnato a credere nel lavoro, a non avere paura di mostrare i sentimenti, e soprattutto a capire che raccontare storie — se lo fai davvero con il cuore — può essere un modo di restituire al mondo qualcosa di bello.
Ti capita mai, da quando i tuoi genitori non ci sono più, di sentirli vicini attraverso segni o piccoli momenti?
Sì, mi succede. Non parlo di cose strane o esoteriche, ma di quelle sensazioni che ti arrivano all’improvviso, magari mentre stai scrivendo o ascolti una canzone che loro amavano. Mio padre, in particolare, mi capita di sentirlo ‘presente’ quando sono davanti a una sceneggiatura o sto cercando una battuta che funzioni. È come se in certi momenti la sua voce mi guidasse, come quando da ragazzo gli facevo leggere i miei primi scritti e lui, senza troppi giri di parole, mi diceva cosa funzionava e cosa no. Anche mia madre la sento vicina nei momenti più emotivi. Quando parlo d’amore, quando mi capita di scrivere una scena delicata… a volte penso: ‘Questo le sarebbe piaciuto’. Non so se sono segni, ma sono presenze che confortano. Forse chi ci ha amato davvero non se ne va mai del tutto.
Che rapporto hai con le tue sorelle da quando i tuoi genitori non ci sono più?
Io sono il figlio maggiore ed ho cercato di tenere unita la famiglia. Alle volte dopo la morte dei genitori si può rischiare di perdersi, ma noi abbiamo tenuto la mano dell’una in quella dell’altro.
Osservando una tua fotografia — magari una di quelle social in cui non sorridi — emerge un lato riservato, introspettivo, quasi riflessivo. Ti riconosci in questa immagine?
Mi riconosco molto, sì. Chi mi vede solo attraverso i miei libri o i film potrebbe pensare che io viva immerso nel romanticismo e nell’entusiasmo dei miei personaggi… ma in realtà ho un lato molto riflessivo. Mi piace osservare, ascoltare, stare in silenzio. Scrivere, in fondo, è un lavoro solitario: passi ore con te stesso, dentro la testa dei personaggi, ma anche dentro la tua. Sono una persona che si interroga molto — sul senso delle cose, sui rapporti umani, sul tempo che passa. E quella riservatezza, che magari traspare in una foto, fa parte di me. È il mio modo di proteggere quello che è più autentico. Poi certo, so anche ridere, scherzare, vivere con leggerezza… ma il mio equilibrio nasce da quei momenti silenziosi.
LEGGI ANCHE: MILENA MICONI: “HO CAPITO CHE MI DIVERTIVO A STARE SUL PALCOSCENICO”
Hai mai ricevuto lettere o messaggi da fan che ti hanno raccontato quanto le tue storie abbiano cambiato il loro modo di vedere l’amore o la vita? Ce n’è uno che ti è rimasto particolarmente nel cuore?
Sì, ricevo ancora molti messaggi, anche dopo tanti anni. Ricordo una lettera di una ragazza che mi raccontava come Tre metri sopra il cielo l’avesse aiutata a credere di nuovo nell’amore dopo un momento molto difficile. Mi ha scritto che le mie parole avevano dato colore a una fase grigia della sua vita. Sono storie che mi emozionano profondamente e mi ricordano quanto possa essere potente la scrittura.
Come ti relazioni oggi con i social e il mondo digitale? Riesci a mantenere la tua autenticità in un contesto spesso frenetico e superficiale?
I social sono uno strumento utile, ma anche un’arma a doppio taglio. Cerco di usarli con equilibrio, condividendo quello che sento vero e lasciando fuori il superfluo. Essere autentici oggi significa anche scegliere con cura cosa mostrare. Non voglio diventare un personaggio virtuale, ma una persona reale, con pregi e difetti.
In un mondo che cambia velocemente, credi che la letteratura romantica abbia ancora un ruolo centrale?
Credo di sì, e credo che l’amore continuerà a essere una delle storie più belle da raccontare, perché è ciò che ci rende davvero umani. Le emozioni non passano mai di moda.
Se dovessi dare un unico consiglio ai giovani scrittori o a chiunque abbia un sogno da inseguire, quale sarebbe?
Di non avere paura di essere se stessi. La verità è la cosa più preziosa che uno scrittore possa offrire. Scrivete per il piacere di raccontare, per la voglia di comunicare qualcosa di autentico, e non per cercare solo il successo o la fama. Il resto arriva da sé, quando il cuore è sincero.

C’è un piccolo rito o una stranezza che ti accompagna ogni volta che inizi a scrivere un nuovo libro o progetto?
Sì, ho una vecchia tazza di ceramica, quella con cui bevevo il caffè da ragazzo. Ogni volta che inizio a scrivere un nuovo libro, mi preparo un caffè in quella tazza e la tengo vicino a me durante tutta la sessione di scrittura. È una specie di piccolo rituale che mi mette nello stato d’animo giusto. Mi fa sentire radicato nel tempo, connesso a tutte le storie che ho scritto e a quelle che ancora devo raccontare.
LEGGI ANCHE: NATHALIE CALDONAZZO: «DOBBIAMO GUARDARE AVANTI ED EVITARE GLI SBAGLI»
Prossimo a partire in vacanza?
Sì. La prossima settimana.
Dopo tutto quello che hai fatto, c’è ancora qualcosa che sogni di realizzare?
Assolutamente sì. Ma senza mai dimenticare l’amore, perché è il motore di tutto.
Ti definisco da sempre un cartografo di anime costruite a tavolino. Ti ci ritrovi?
Wow, ‘cartografo di anime costruite a tavolino’ è una definizione davvero poetica e intrigante — mi piace molto!
Grazie.
Mi ci ritrovo, sì, in un certo senso. Come cartografo, traccio mappe e percorsi nel territorio delle emozioni, delle identità, delle storie umane — anche se sono “costruite a tavolino”, cioè nate dalla creatività, dall’immaginazione, dal desiderio di dare forma a ciò che spesso è sfuggente e complesso dentro di noi. Il bello è proprio questo: trasformare l’astratto, l’invisibile, in qualcosa di leggibile, tangibile, che possa guidare chi legge o ascolta in un viaggio interiore. Raccontare storie è un modo di fare ordine nel caos delle anime, di esplorare territori emotivi inesplorati, di scoprire nuove coordinate per orientarsi nella vita.
***
Intervistare Federico Moccia significa immergersi in un mondo di emozioni autentiche e di valori che raramente si trovano in modo così puro nel panorama culturale contemporaneo. Moccia non è solo l’autore di romanzi di successo, ma un narratore che parla al cuore delle persone con onestà e semplicità. In un’epoca in cui tutto sembra correre veloce e diventare superficiale, lui ci ricorda che dietro ogni storia d’amore c’è un desiderio genuino di connessione, un bisogno umano universale di essere visti e compresi.
I suoi valori — sincerità, passione, radicamento nella famiglia e nella memoria — risuonano come un faro luminoso per chiunque cerchi un senso più profondo nelle proprie emozioni. Federico Moccia è un artigiano di sogni, un custode di sentimenti, un autore capace di farci tornare a credere nella magia dell’amore e della vita. Per questo la sua voce non si spegnerà mai, ma continuerà a ispirare generazioni, come un ponte che collega il passato, il presente e il futuro.
ILARIA SOLAZZO
LEGGI ANCHE: LUCIANO VIOLANTE: “BISOGNA IMPOVERIRE LA MAFIA”
Hai un blog sulla Sicilia, cronaca, cultura o turismo? Linka questo sito per offrire ai tuoi lettori un giornale unico!

Copia il codice e incollalo nel tuo sito o post.
Grazie per aiutarci a farci conoscere.
Creato da La Voce del Nisseno