Francesco De Gregori
Francesco De Gregori

Correva l’anno 1975 quando un giovanissimo e pressoché sconosciuto Francesco De Gregori si presenta presso gli studi della RCA con 9 canzoni, 29 minuti in tutto, destinate a riscrivere le regole della musica leggera italiana.

Francesco De Gregori si chiude nello studio di registrazione e incide quei pezzi, uno alla volta, di nascosto, da solo con i suoi musicisti. Il patron di RCA ai tempi era Ennio Melis che lascia al giovane cantautore carta bianca avvertendolo, però, che avrebbe declinato ogni responsabilità se il disco non avesse avuto successo.

Il successo arriva, invece, anche al di là di ogni ragionevole aspettativa. Cinquecentomila copie vendute, 60 settimane in classifica (record mai più battuto da un cantautore italiano), ma soprattutto 9 brani, 9 tracce che hanno fatto la storia della canzone d’autore italiana.

La canzone che dà il nome al disco, Rimmel, dice già tutto nel titolo. Francesco in una intervista afferma: “Rimmel è il trucco che le ragazze usano per gli occhi, qualcosa di artefatto, di falso che il disco vuole smascherare”. È praticamente una canzone d’amore, ma è molto di più. Non c’è una protagonista femminile, ci sono, in compenso, vari richiami e riferimenti. La scrittura diventa simbolica, quasi onirica in alcuni passaggi, in un susseguirsi di situazioni, di spaccati di vita quotidiana e frammenti di ricordi.

Intanto ci sono le “pagine chiare e le pagine scure”, ci sono alibi e ragioni e c’è pure chi legge le carte, che altri non è se non Puny Rignon, la prima moglie di Fabrizio De Andrè. Francesco e Fabrizio hanno collaborato alla realizzazione del disco Volume 8 di De Andrè, trasferendosi presso la villa che il grande ed indimenticato Faber aveva in Sardegna. Ed è proprio lì che Puny faceva i tarocchi a Francesco preannunciandogli un futuro radioso (“chi mi ha fatto le carte mi ha chiamato vincente”), anche se per lui “uno zingaro è un trucco”.

Per inciso, in Sardegna sono nate alcune delle canzoni di Rimmel, che vengono fatte ascoltare a Fabrizio e al piccolo Cristiano, che in una intervista racconterà di essere stato praticamente il primo ad ascoltare il celeberrimo valzer di Buonanotte Fiorellino.

Francesco De Gregori
L’avvocato Leonardo Costa

Tornando alla canzone Rimmel, Nini Salerno, uno dei componenti dei Gatti di Vicolo Miracoli, ha raccontato che la ragazza di cui si parla nella canzone si chiamava Patrizia e, per un breve periodo, è stata la compagna di Francesco prima di lasciarlo proprio per lo stesso Nini. Per questo la ragazza viene invitata a spedire le proprie labbra “a un indirizzo nuovo” e a sovrapporre la faccia di Francesco “a quella di chissà chi altro” mentre lui confessa di avere già cancellato “il tuo nome dalla mia facciata”.

Insomma c’è l’amore, ma c’è tanto altro: la delusione per essere stato abbandonato, il ricordo struggente dei giorni felici passati insieme e delle promesse ormai scadute (“ho detto è tutto quel che hai di me, è tutto quel che ho di te”), c’è il suo collo di pelliccia, c’è la foto “in cui tu sorridevi e non guardavi”, ma soprattutto c’è la dolce venere di Rimmel.

Una canzone d’amore, dicevamo, ma senza più amore, una canzone composta intorno a piccoli frammenti di una relazione ormai finita, una canzone che segna una rottura con il modo di fare musica degli anni ’70, tutto incentrato sulle rime cuore-sole-amore, con testi che, a sentirli oggi, lasciano un po’ perplessi per la ripetitività delle situazioni che raccontano.

Rimmel, invece, ha passato i decenni diventando un cult, una canzone che tanti giovani e meno giovani hanno sentito come la propria canzone del cuore e che tanti colleghi di Francesco hanno cantato ed inciso nei propri album, in ultimo Tiziano Ferro.

Altra canzone diventata quasi un manifesto per una intera generazione di giovani è sicuramente Pablo. È la storia di due emigranti in Svizzera, di cui uno, lo spagnolo Pablo, a un certo punto cade, forse da una impalcatura e forse muore, ma è vivo perché viva resta la memoria di quanto accaduto, di questa morte sul lavoro di un povero emigrante, costretto a lasciare la sua terra e i suoi cari per cercare lavoro nella ricca Svizzera.

Nella canzone si parla anche di padroni (non di datori di lavoro) perché siamo negli anni ’70 quando impazzavano le lotte sindacali dei lavoratori, quando si poteva anche morire per un ideale o semplicemente per rivendicare un sacrosanto diritto. E allora Pablo diventa il simbolo di chi lotta per i propri diritti e per i propri ideali, di chi è vittima del mondo, di chi cerca un futuro migliore.

È evidente che questi temi sono molto sentiti in quegli anni tanto che la canzone diventa quasi un inno di lotta proletaria, un manifesto contro tutti gli abusi e contro i padroni di tutto il mondo. Alla parte musicale della canzone ha collaborato anche Lucio Dalla.

Continuando l’ascolto del disco ci imbattiamo in una vera e propria perla: Pezzi di vetro. Solo voce e un leggero arpeggio di chitarra a scandire la storia di un funambolo, di uno che cammina sui pezzi di vetro. Nella canzone ci sono tanti momenti disegnati da strofe dove la poesia la fa da padrona: ci sono i chiaroscuri, c’è la luna, ci sono i fuochi, le stelle e c’è l’amore, forse solo accennato, forse immaginato. “Ti potresti innamorare di lui, forse sei già innamorata di lui, cosa importa se ha vent’anni…”.

Forse la lei della canzone è una donna matura che si innamora di un giovane saltimbanco, uno che sbarca il lunario facendo il funambolo, camminando sui pezzi di vetro senza mai tagliarsi, ma in fondo non è importante capire, è molto più appagante lasciarsi trasportare dalle strofe che si susseguono disegnando storie, inganni, numeri da circo, tanto che alla fine “non hai capito ancora come mai gli hai lasciato in un minuto tutto quel che hai, però stai bene dove stai”. Che dire, giù il cappello davanti a una canzone così bella e, per certi versi, così intimamente intrisa di struggente e dolce malinconia.

Il signor Hood è il ritratto di un politico, di uno che viene descritto come galantuomo sempre ispirato dal sole, pronto a battagliare con il suo “canestro pieno di parole” in difesa dei più poveri. Si tratta niente di meno che di Marco Pannella, un vero e proprio Robin Hood del nostro tempo, sempre impegnato a promuovere referendum e battaglie politiche contro gli abusi dei potenti.

Le storie di ieri introducono la Storia con la S maiuscola. Si parla di fascismo, di un padre e di un figlio, fascista convinto il primo, fortemente antifascista il secondo. Si tirano le somme su quello che è stato il fascismo e sulle ceneri che ha lasciato. Una società stremata, povera, affamata, un paese da ricostruire dopo una guerra assurda. Si parla del gran capo Mussolini, la “mascella che al cortile parlava”, come un affabulatore di folle, che ha trascinato il paese verso la rovina tra immaginifiche promesse di grandezza imperiale e miserie quotidiane.

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Però tutto poi passa, anche la guerra con i disastri che conosciamo, con le ferite che ha lasciato in un Paese praticamente spaccato in due tra fascisti (poi repubblichini) e antifascisti, un Paese lacerato da una guerra civile, da tanti morti che ancora oggi reclamano giustizia. E allora quel bambino che giocava nel cortile a un certo punto si ferma perché “si è stancato di seguire aquiloni”, ha, cioè, preso consapevolezza delle vuote promesse del fascismo che si sono poi rivelate vane ed ingannevoli. E allora occorre cancellare la scritta nera che c’è sul muro per ripartire, occorre rimboccarsi le maniche e lavorare alla ricostruzione del Paese. La canzone è stata incisa anche da De Andrè nel suo Volume 8.

Quattro cani, uno diverso dall’altro, camminano per la strada mentre sta scendendo la notte. C’è il cane che scappa dopo averci annusato, c’è quello che teme il piede dell’uomo, c’è la cagna, quella che “quasi sempre si nega, qualche volta si dà e semina i figli nel mondo”. Quando uscì la canzone, qualcuno vide nei quattro cani i ritratti di De Gregori, Lilli Greco, Venditti e Patty Pravo, ma l’autore ha sempre smentito questa lettura. E allora non ci resta che ascoltare le parole e il delicato arpeggio di chitarra fino al ritornello, arricchito dalla voce di Lucio Dalla. Perché in fondo, “se ci fosse la luna, si potrebbe cantare”.

Piccola mela. Altro brano tipicamente degregoriano, dove si sente l’influenza della canzone popolare e dei cantastorie. Il Principe in una intervista racconta di aver citato i versi di una canzone popolare sarda. Si parla di maestrine e di dottori, di amore e di una piccola mela che lui si mette in tasca e che poi diventa un piccolo fiore da offrire all’amata, in un gioco di immagini e versi delicati. Il tutto accompagnato da una melodia leggera e da cori che impreziosiscono questo piccolo gioiello.

Piano bar parla di un pianista che si guadagna da vivere suonando il pianobar, peraltro in modo veramente terribile, in un grande albergo romano. Francesco De Gregori non ha una grande considerazione di questo povero musicista, tanto da chiamarlo “uomo di poca malinconia”. In una intervista dirà che questo povero pianista suonava e cantava nell’indifferenza generale e magari non vedeva l’ora di tornarsene a casa.

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C’è anche un riferimento alla Democrazia cristiana (“uno scudo bianco in campo azzurro è la sua fotografia”) in un periodo di forte tensione politica. Dare del democristiano a qualcuno non era certo come fargli un complimento! Per molti anni è circolata una storiella secondo cui il pianista di cui si parla nella canzone altri non sarebbe se non Antonello Venditti che, dopo aver inciso il primo album insieme a De Gregori, di cui era amico da sempre, fin dai tempi del Folk Studio, si era poi allontanato, seguendo la sua strada. Ma questa leggenda è stata più volte smentita da Francesco De Gregori.

Francesco De Gregori
Il disco

Il disco si chiude con Buonanotte fiorellino, celebre valzer di appena due minuti e tre sole strofe. Eppure in quelle tre strofe si raccontano tante storie, tra metafore e versi senza alcun nesso logico. C’è un raggio di sole, c’è il mare, ci sono le foglie di thè, c’è un anello. E poi c’è lei, che nelle tre strofe diventa “amore mio”, “fiorellino” e, infine, “monetina”.

È una canzone di rottura, volutamente e direi magistralmente mascherata da canzonetta d’amore. Ma a perdercisi dentro, si scopre un mondo, si respira una sottile e impietosa ironia, quasi che l’autore volutamente avesse giocato a sorprendere il suo pubblico nascondendosi poi ad osservarne la reazione. La canzone è stata più volte arrangiata in modi diversi nei concerti dal vivo. Addirittura ne esiste anche una versione rock. Ultimamente viene cantata alla fine dei concerti e sulle sue note il pubblico viene invitato a ballare questo bellissimo valzer.

Concludendo queste brevi considerazioni occorre chiedersi cosa resta oggi, tra le pagine chiare e le pagine scure, di questo disco del 1975. Di certo restano le canzoni, queste 9 tracce che contengono pennellate di pura poesia e che hanno consacrato Francesco De Gregori nell’olimpo dei cantautori.

Restano le emozioni che hanno suscitato in chi da 50 anni ascolta queste canzoni e ancora oggi continua a farlo. Resta la musica, le melodie e gli arrangiamenti di un disco che, ad ascoltarlo oggi, non dimostra affatto di aver compiuto mezzo secolo di vita, grazie anche allo spessore dei musicisti che hanno lavorato alla realizzazione del disco, tra cui il grande sassofonista Mario Schiano e il chitarrista Renzo Zenobi.

Francesco De Gregori festeggerà questo importante traguardo con una serie di concerti che si terranno nei palasport, nei teatri e nei club di tutta Italia, dal 23 agosto 2025 al 14 febbraio 2026. In questo lungo tour verrà accompagnato dalla sua band composta da Guido Guglielminetti (basso e contrabasso), Carlo Gaudiello (pianoforte), Primiano Di Biase (tastiere, fisarmonica e hammond), Paolo Giovenchi (chitarre), Alessandro Valle (chitarra, pedal steel e mandolino), Simone Talone (batteria e percussioni). Francesca La Colla e Cristina Greco saranno le coriste.

LEONARDO COSTA      

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