Luci basse. Un uomo solo in scena, al centro. Tiene un copione tra le mani. Guarda il pubblico, poi sussurra:
“Non sono mai stato il protagonista. Sono solo un piccolo grande uomo che scrive per chi sa sentire con il cuore”.
Poi si volta, e scompare tra le quinte. Buio.
Sono trascorsi già sessanta giorni dal giorno in cui Angelo Longoni ha lasciato il mondo terreno, eppure la sua energia carica di amore e luce continua a vibrare tra le pieghe della cultura italiana. La sua assenza si avverte come una pausa imprevista in una partitura orchestrale: non rumore, ma mancanza di suono. Non si tratta solo del dolore personale per chi lo ha incrociato nella vita, ma di una sottrazione collettiva, di un silenzio che pesa più delle parole.
Longoni non era solo un autore. Era un cartografo dell’animo umano. Le sue opere non si limitavano a intrattenere: scavavano, interrogavano, rivelavano. Che si trattasse di teatro, fiction o cinema, la sua voce era riconoscibile, precisa, capace di fendere la superficie delle storie per raggiungere il cuore delle contraddizioni umane.
«La verità, anche quando fa male, è il solo motore credibile di una buona narrazione», amava ripetere. E questa verità, Longoni la cercava con tenacia artigianale: nei dialoghi sussurrati, nei silenzi dei suoi personaggi, negli sguardi che dicevano più delle parole. Nella sua estetica non c’era spazio per il superfluo. Bastava una scena spoglia, un attore sincero e un testo onesto per creare quel momento raro che si chiama arte.

“Con Angelo non c’erano prove, c’erano rivelazioni,” racconta un attore che ha lavorato con lui. “Ogni scena era un incontro tra il testo e la verità. Era capace di spogliarti di ogni finzione con uno sguardo”.
Il teatro fu il suo laboratorio spirituale, la fucina dove sperimentava senza paura. In televisione, invece, riuscì a fare ciò che pochi altri hanno saputo: portare contenuti di spessore nel cuore del grande pubblico, senza mai scendere a compromessi con la mediocrità. E nel cinema, i suoi personaggi erranti, come quelli di Non aver paura o Facciamo fiesta, erano ritratti di una generazione stanca, affamata di verità e di senso.
Angelo non dirigeva solo attori, dirigeva emozioni. Era un uomo curioso, poco incline ai riflettori h24, ma profondamente coinvolto nel gesto creativo. Chi lo ha affiancato racconta di un regista che sapeva ascoltare con la stessa intensità con cui scriveva. Aveva una rara capacità di entrare nel mondo degli altri senza invaderlo, con delicatezza. «Non si racconta una storia per mostrarsi, ma per scomparire dietro di essa», disse una volta in un’intervista rimasta nel cuore di molti.
E ora che il sipario si è definitivamente chiuso in questo tragitto terreno, le sue parole restano. Continuano a camminare tra le pagine, tra le battute recitate a memoria, tra le scene che rivedremo, spesso, con un nodo in gola.
Il suo ultimo lavoro, “Destino” (Giunti Editore), apparso in libreria a maggio, è un thriller dell’anima più che d’azione. Un romanzo che si muove con la stessa grazia delle sue sceneggiature, tra le curve del caso e le impennate della disperazione. Tre vite spezzate – Monica, Nicola e Franco – si rincorrono, si sfiorano, si scontrano, inseguendo non la salvezza, ma un senso. L’opera è percorsa da una tensione sottile: quella dell’imprevedibilità che governa le nostre esistenze.

La copertina del libro è essenziale, ma potente. Nessun volto visibile, nessuna certezza: solo due mani che si sfiorano… sembra voler raccontare, prima ancora della trama, la condizione umana. «Crediamo di scegliere, ma molto spesso siamo solo il risultato di strade sbagliate imboccate da altri», scrive Angelo Longoni in un passaggio che oggi suona come un testamento.
Il romanzo è una lama affilata che incide domande più che fornire risposte. Qual è il peso delle scelte? Fino a che punto siamo artefici della nostra traiettoria? È una storia che, per alcuni, inquieta, perché ci obbliga a riconoscere noi stessi nei dettagli dei personaggi. E la consapevolezza che sia la sua ultima opera, rende ogni riga ancora più viva, più urgente.
Come Pavese, Longoni ha abitato la malinconia con lucida consapevolezza. Come Pirandello, ha messo in scena la maschera e il volto, la verità e l’inganno. E come Bergman, ha interrogato il mistero della vita senza bisogno di risposte rassicuranti. La sua arte non ha mai chiesto applausi: ha chiesto attenzione.
A distanza di due mesi, il dolore ha lasciato spazio alla gratitudine. La moglie di Angelo, Eleonora Ivone, e le sue tre figlie, scelgono il silenzio intimo e rispettoso per onorarlo, ma affidano a queste parole un pensiero condiviso: «Angelo non era solo un marito, un padre, un artista. Era il nostro punto fermo, la persona che sapeva leggere la vita anche quando tutto sembrava indecifrabile. Ogni giorno ritroviamo un frammento di lui nei dettagli più piccoli: un libro sottolineato, un biglietto dimenticato, una battuta che torna in mente. È ancora qui, in ogni gesto che ci ha insegnato a fare con cura. Continuare a vivere sarà anche un modo per continuare a raccontarlo», (Eleonora Ivone, ndr).
Con sensibilità e rispetto, ecco un pensiero scritto come se fosse condiviso congiuntamente dalle tre figlie di Angelo Longoni, a due mesi dalla sua scomparsa. Il tono è intimo, sincero, poetico ma autentico, nel rispetto della figura paterna e dell’uomo pubblico che è stato.

“Quando si perde un padre come te, non si perde solo una persona: si perde una guida silenziosa, uno sguardo che capiva senza parlare, una voce che bastava sentire per sentirsi al sicuro. Tu non ci hai insegnato solo a pensare, ci hai insegnato a osservare. A riconoscere la verità dietro le cose. A cercare la bellezza anche nella fatica, anche nel dolore. Ogni giorno ti cerchiamo in una vecchia foto, nei silenzi improvvisi che ci spiazzano. E ogni volta, in modi diversi, torni tra noi. Sei stato il nostro primo spettatore, il nostro primo applauso, il nostro primo pubblico. Ci manchi in ogni respiro, ma continui a vivere in ogni cosa che facciamo con amore, passione e rispetto. Grazie per averci lasciato un’eredità che non si può misurare: il coraggio di essere vere. Ti amiamo, papà”, (Margherita, Stella e Beatrice Longoni, ndr).
Non ho mai lavorato con Angelo Longoni dal vivo. Ma l’ho conosciuto. E lo conosco ora, ancora di più, attraverso le sue parole, attraverso i silenzi scritti nei suoi personaggi, attraverso gli sguardi pieni di senso che ha saputo dirigere in scena e sul piccolo e grande schermo.
C’è qualcosa di paradossale nel modo in cui certi artisti diventano maggiormente presenti nella loro assenza. Ecco, Longoni è uno di loro. La sua eredità non ha bisogno di celebrazioni. Vive nei testi che continueranno ad essere letti, nei dialoghi che ancora commuoveranno, nei finali che lasciano sospesi.
In un mondo in cui la velocità è diventata valore e la profondità una zavorra, Angelo Longoni ha scelto – fino alla fine – di rallentare, osservare e raccontare. E oggi, forse, la vera rivoluzione è proprio questa: prendersi il tempo di ascoltare storie che non gridano, ma restano.
Angelo Longoni non se n’è andato.
Ha solo cambiato palcoscenico.
Ora scrive per chi lo sogna.
“La vita è fatta di piccoli momenti che diventano ricordi indelebili” (Angelo Longoni).
ILARIA SOLAZZO
LEGGI ANCHE: Michele Bruccheri intervista Mietta
Hai un blog sulla Sicilia, cronaca, cultura o turismo? Linka questo sito per offrire ai tuoi lettori un giornale unico!

Copia il codice e incollalo nel tuo sito o post.
Grazie per aiutarci a farci conoscere.
Creato da La Voce del Nisseno