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Lorena Ulpiani

Lorena Ulpiani è un genio multiforme. Con due grandi passioni: la pittura e la scrittura, soprattutto il giornalismo e la poesia. Una donna vulcanica, di origine marchigiana ma ormai padovana d’adozione. Sessantadue anni portati egregiamente, in questa lunga intervista ci dona il suo cuore. Alterna i ricordi alla riflessione. Con singolare generosità.

Vorrebbe “pubblicare un romanzo, vincendo la timidezza. Imparare a suonare lo hang. Avere una mia galleria. Intervistare i 10 più grandi pittori al mondo. Vedere un mio quadro battuto da Sotheby’s. Vivere e lavorare tra Padova e New York”, asserisce a conclusione della nostra interminabile chiacchierata.

Entrambi molto occupati, finalmente siamo riusciti a realizzare questa intervista. E solo i grandi si possono concedere. Lei l’ha fatto con entusiasmo e con generosità. Ha vissuto una vita piena, di speranza, intensa. Il carburante per Lorena Ulpiani è stata la pittura, ma anche la scrittura. Due elementi importanti e basilari nella sua vita.

Affabile ed eclettica, eccola al microfono de La Voce del Nisseno. Per conoscerla di più e meglio. Una piacevole, interessante e profonda conversazione che ci arricchisce.

Partiamo dalle tue origini, sei marchigiana vero?

Sì, sono nata a Montefiore dell’Aso e cresciuta a Cupramarittima: anni tra mare e collina nella provincia di Ascoli Piceno, città che sento da sempre come la mia città.

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Assieme al sindaco Andrea Francesi dipinge alla presentazione della prima mostra – Shanti

Non ancora ventenne, ti trasferisci nella bella Padova. È così?

Sì, dopo la maturità, nel ‘79 mi sino trasferita a Padova per iscrivermi a Materie Letterarie – Magistero, scegliendo l’indirizzo storico artistico. Da allora non l’ho più lasciata, se non per trasferimenti temporanei legati al lavoro. Amo le luci basse dei tramonti in Prato della Valle, il vento leggero nel sagrato del Santo in estate, l’energia dell’Orto botanico, i molti giardini interni, gli azzurri di Giotto nella Cappella degli Scrovegni, le “Piazze” nel periodo delle castagne. Padova è anche centrale rispetto al resto della regione…

Continua, Lorena.

Da metà anni ‘90 abito e lavoro ad Albignasego, comune limitrofo così da essere a 4 chilometri dal centro di Padova e poco di più dall’area termale e dai Colli Euganei per le mie camminate.

Se non sbaglio consegui la laurea a Verona: confermi?

Sì. Dopo due anni di studio all’Università di Padova, decisi di trasferirmi: mi sono laureata a Verona passando dall’indirizzo storico artistico a quello geografico, con tesi in geografia umana (o antropica).

Perché?

Padova in quegli anni, obbligava al numerino come al supermercato per accedere agli sportelli di segreteria e si attendeva in strada, molti i disagi organizzativi della facoltà. Verona spediva tutto a casa o dava l’appuntamento, le attese erano minime. Aveva splendide aule studio, oltre che di lezione. Aveva corsi e servizi aggiuntivi e i docenti erano spesso gli stessi. Fu una scelta facile, nonostante i 180 chilometri in più, tra andare e tornare.

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Un’opera di Lorena Ulpiani

Tu hai principalmente due passioni, la pittura e la scrittura. Quando scopri l’interesse per la pittura?

Sono cresciuta tra i pennelli di mia madre, quindi ho iniziato ad usare i colori che ero bambina. Ma dipingevo come ricerca personale, mai avrei immaginato di farne una professione. Le cose iniziano a cambiare nel momento in cui il giornale per il quale lavoravo mi ha trasferita a Belluno: ero a 120 chilometri da casa, in un capoluogo di montagna con ritmi di vita molto diversi da quelli a cui ero abituata. È allora che la pittura mi ha sorpresa con una forza nuova. Ho vissuto qualcosa di simile di ciò che accade quando la natura riconquista una terra un tempo urbanizzata. Belluno si alzava all’alba quando io dormivo e andava a letto all’imbrunire, quando in giornale iniziava il lavoro. Sai bene com’è, si lascia la scrivania quando la luna è alta.

Noi giornalisti lo sappiamo, Lorena!

Nel breve tratto a piedi dalla redazione a casa, in piazza Duomo, incontravo un unico essere vivente: il gatto che abitava in una finestra rotta del Municipio. Importate è stata l’amicizia con la presidente del Circolo Culturale Morales, Francesca Lauria Pinter, pittrice splendida. Così come lo è stato un esperimento che ho fatto per capire la capacità di comunicazione di ciò che dipingevo. È stato un modo per rompere la noia, sono sempre stata curiosa e questo mi ha aiutata spesso.

Prosegui nel tuo racconto…

In Piazza dei Martiri, salotto buono di Belluno, proprio davanti alla redazione, c’erano i due caffè storici di Belluno. Uno dei due, Il Deon, aveva due edicole vetrate laterali che al tramonto venivano colpite da una luce bellissima, ideale per un quadro. Così chiesi di poterne usare una e ci misi un dipinto geometrico, senza mettere il mio nome. Il quadro, nelle mie intenzioni, nasceva e si addormentava con la città, come non avesse passato o futuro. A me interessavano le reazioni; quando potevo mi sedevo nei tavoli in prossimità del dipinto tanto da cogliere le voci. E un giorno la mia pazienza è stata premiata.

Cosa avvenne?

Davanti al quadro si fermò una coppia a manina, avevano circa 30 anni. Fu lui a notare il quadro e indicandolo a lei disse in dialetto: “Questa non è di Belluno, c’è troppo sole”. Aveva sintetizzato in un pugno di parole il fatto che fosse opera di una donna, che quella donna veniva da fuori e che questo suo essere “foresta” si capiva dalla luce solare del quadro, estranea alla città. Non intervenni, ma sono parole che mi avevano colpita: quel che dipingevo era in grado di comunicare, aveva qualcosa da dire. E questo mi incuriosiva abbastanza da farmi andare avanti nella condivisione della mia pittura con l’esterno.

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Un’altra opera di Lorena Ulpiani

Certamente un’influenza l’hai ricevuta da tua madre pittrice, oppure no?

Ritengo di sì, anche se abbiamo temperamento e approccio alla vita molto diversi. Lei è introspettiva, solitaria, interiormente tormentata; si esprime in un espressionismo che fino al ‘93, anno in cui è mancato mio padre, è stato piuttosto cupo. È un’astrazione fortemente ancorata alla forma, straziata e liberata nelle sue de-formazioni. Questo è quanto di più lontano possa esserci dal mio “vivere zen” e dalla mia pittura che si nutre di armonia. Trasmette armonia. C’è una serie di geometrici quasi cinetici nella quale il colore ha fin troppa luminosità, quasi confonde. A volte, parlando di pittura con mia madre, che oggi si avvia ai 90 anni, penso sia possibile che la sua influenza stia proprio in questo mio bisogno di luce, di solarità, di astrazione aniconica. Una reazione, una fuga che mi ha spinta all’opposto indicandomi la via.

E poi, Lorena?

C’è anche un secondo aspetto per il quale l’attività pittorica di mia madre è stata preziosa: mi ha permesso di entrare in contatto, ancora ragazzina quindi molto recettiva, con voci autorevoli della Roma degli anni ’70 e ’80: anni in cui via Margutta e via del Babuino facevano sognare. E io ero lì che respiravo questo sogno. Penso ai racconti di Pericle Fazzini la cui residenza estiva è poco distante da casa dei miei nelle Marche; a Manzù o a Luiciano Luisi, giornalista e poeta, all’epoca critico di mia madre. Negli anni ’90 la malattia di mio padre mise fine a tutto questo. Per mia madre iniziarono anni difficili. Io non credo di essermi mai fermata.

Quasi 10 anni fa, nel 2012, arriva la soddisfazione della tua prima personale. Come ricordi quel momento?

Come un momento intensissimo, è stato il tempo inconsapevole di una svolta. La mostra è stato l’avvio di uno tsunami che mi ha portata negli anni a lasciare il giornale e a dedicarmi alla pittura quasi a tempo pieno. Oggi direi: destino.

Vai avanti…

Shanti, questo è il titolo della personale, nasceva quasi per caso al termine di un pranzo di Ferragosto con Martina Zanchetta, la proprietà del Miramonti Majestic Grand Hotel di Cortina (Bl). Ero stata invitata da Nives Milani, amica unica e voce storica di Radio Cortina. Arrivai per il rotto della cuffia, c’era una coda infernale che da Longarone saliva verso il Cadore e oltre. Fu un pranzo piacevolissimo sulla più bella terrazza ampezzana, tutta per noi; e con il caffè, parlando di arte arrivò anche l’offerta di esporre.

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Altra opera

Per quanto tempo?

I miei quadri sarebbero rimasti per un mese nella Sala del Caminetto, quella nella quale nel 1962 erano state girate le più belle scene del film “The Pink Panther” (La Pantera Rosa) di Blake Edwards, con Peter Sellers nei panni del mitico ispettore. Difficile dire cosa ho provato: gioia immensa da un lato, timore dall’altro. Mancavano sei mesi all’inaugurazione, fissata a inizio febbraio: servivano quaranta opere tra oli e chine; all’ultimo momento aggiunsi anche due quadri di mia madre, come benedizione. Preziosissimo nella riuscita Carlo Pomarè, all’epoca direttore dell’Hotel, persona straordinaria.

Ricordi l’inaugurazione?

Ricordo che l’inaugurazione e la prima settimana di mostra furono funestate dal picco influenzale; mi ammalai anch’io e dovetti annullare alcuni incontri ma nell’insieme Shanti fu molto apprezzata, tanto che nei mesi successivi alcuni quadri volarono a Londra e a New York su invito di critici autorevoli. Uno dei momenti speciali è stato quando, conclusa la breve cerimonia di inaugurazione, abbiamo dipinto un quadro a più mani, davanti al caminetto, coinvolgendo anche il sindaco di Cortina Andrea Franceschi, l’assessore alla Cultura Giovanna Martinolli e il primo cittadino di Calalzo Luca De Carlo, oggi parlamentare.

Continua Lorena…

Il quadro è stato poi messo in asta con CortinainCroda per la costruzione di un ambulatorio per le donne in gravidanza a Kande, un paese montano del Pakistan dove gli Scoiattoli di Cortina già nel 2004 avevano contribuito a costruire l’acquedotto. Ero ancora lontana dall’intuire come sarebbe cambiata la mia vita, ma ero felice di ciò che stavo facendo.

L’altra passione, come accennavo, è la scrittura. Sei una collega giornalista, quando inizi a scrivere?

Ho iniziato a scrivere nell’87 per Qui Touring. Ma ancora sognavo di specializzarmi in restauro e occuparmi di arte. Poi la vita ha deciso altro e nel giro di qualche anno mi sono trovata in redazione. Un percorso rovescio: dai periodici, all’agenzia, al quotidiano. E più di recente, alla poesia.

Essenzialmente di cosa ti sei occupata?

La “partenza” è stata con Tutto Turismo e Alisei. Dopo un paio d’anni, sono passata ai trasporti con la Domus e la Duegi Editrice. E più avanti ancora, il salto agli inserti del Sole 24Ore, all’agenzia AdnKronos e al quotidiano, con Il Gazzettino.

Ed inoltre?

Mi sono occupata un po’ di tutto: cronaca bianca, cronaca nera, giudiziaria, cultura, sport; molta politica e molta economia, soprattutto con AdnKronos: quelli con l’agenzia sono stati sicuramente gli anni più intensi e più belli dal punto di vista professionale. Erano anni in cui la crisi mordeva meno, si poteva lavorare nel rispetto della notizia e della deontologia, cosa che con il passar del tempo è diventato sempre più raro. Quando ho lasciato la redazione dando le dimissioni, nel 2014, se guardavo indietro tutto era diverso: ero una cottimista di pagine prigioniera di un neon, nonostante la mia resistenza a tutto questo…

Dimmi…

Non escludo di tornare a scrivere ma solo se si ci saranno le condizioni necessarie al rispetto della dignità della professione.

So che hai avuto una forte inclinazione ai testi storici. Ce ne parli?

Ricordi di anni spensierati, vissuti inseguendo “binari”. Nella storia ho sempre cercato l’uomo, le scelte, i destini, anche gli errori: è un ipertesto immenso in cui siamo tutti. La passione per gli archivi è qualcosa di innato che coltivavo già con l’università, facendo ricerche su alcune ville venete. Unire questo alla ricerca sulle ferrovie è stato un attimo.

Ti ascolto…

Il contatto con le locomotive a vapore risale alla fine degli anni ’80, quando ho conosciuto mio marito, divenuto poi direttore di Tutto Treno, testata specializzata praticamente nata in casa nostra: eravamo giovani, vivevamo un mondo fatto di viaggi, di scambi di foto e di informazioni. Il primo viaggio in locomotiva a vapore, in cabina, è un’emozione viscerale che non dimenticherò mai: la locomotiva respira, quel ferro è un cuore che batte. L’odore dell’olio, del carbone, il riverbero del fuoco: tutto è ipnotico. Cercai di fare anche il corso di fuochista a Verona. Cercando di conoscere le locomotive, ovunque mi muovessi (mercatini, biblioteche, sedi di aziende dismesse) trovavo progetti, cronache, disegni, piantine, vecchi manuali.

Interessante.

Materiale da conservare e tramandare: su mezzi e su edifici. Ne nacque una serie di monografie che si allargò anche alle grandi stazioni come Milano e Roma e alle linee secondarie. Scrissi la monografia che celebrava i 100 anni dell’Ansaldo, un lavoro che ricordo ancora con emozione. Sono pubblicazioni che portano la firma da spostata: Lorena Tanel e le si trova in biblioteca nei musei ferroviari o al Museo della Scienza e della tecnica di Milano.

Progetti importanti…

In tutto questo solo un pensiero fa male, la scomparsa nei mesi scorsi di Gianfranco Berto, editore di Tutto Treno e grande amico: quel che è stato costruito in quegli anni lo si deve alla sua genialità e alla sua volontà di ferro. Conservo ancora un tesoro che un giorno forse deciderò di pubblicare: sono interviste a macchinisti e fuochisti, capistazione, capideposito. Un mondo che non esiste più e che ha ancora qualcosa da dire, sul piano storico tecnico e soprattutto su quello umano. Sono storia e sono vite.

Veramente bello.

In Italia purtroppo c’è scarsa cultura ferroviaria, molto materiale è stato disperso, così come sono state fatte scelte scellerate a livello museale. Peccato. Lasciai Tutto Treno negli anni dell’alta velocità, di cui comunque ebbi modo di scrivere spesso.

E poi ci sono le tue battaglie per i diritti umani. Lavori con gli autoctoni del Nord del Quebec. Come ricordi quella esperienza?

Quello in Quebec è un altro tempo in cui il destino ha fatto sentire la sua forza: era il finire degli anni ’90, quando pensando di avere più tempo per la famiglia avevo provato la via degli uffici stampa: una parentesi breve. Oltre che lavorare per istituzioni e aziende mi trovai a lavorare per i Cree (Eeyou Istchee), popolo nativo del Nord del Quebec. Senza quasi accorgermene mi sono trovata all’altro capo del mondo, a Ouje Bougamou, in mezzo alla foresta del Grande Nord, a 700 chilometri da Montreal: la comunità che era stata premiata da Hannover 2000 per la sostenibilità ambientale. Seguivo, unitamente ad altri colleghi Cree e non solo, la comunicazione stampa del Gran Consiglio in Italia, dove a Padova su di loro era nata un’associazione, e anche in Europa. Temi: sostenibilità ambientale, foresta e diritti umani dei nativi.

Una cultura diversa…

Ero immersa in una cultura completamente diversa, eppure mi sentivo a casa. Non perché mi sentissi Cree. Ma perché sia io, sia la foresta, sia i nativi eravamo parte di una stessa energia che permea quei luoghi, li trapassa, li avvolge nel loro isolamento dal resto del mondo. Senti quell’energia, le appartieni.

Continua con la tua narrazione, cara Lorena…

Ero stata chiamata in Quebec dal grande capo Cree, Ted Moses: candidato al Nobel per la Pace, nominato Uomo del Quebec anni dopo, laurea honoris causa in economia. Un gigante pacato, carismatico: capelli corvini, occhi nerissimi, movimenti lenti, pensiero diretto. Rigorosamente in cravatta. Ted ha rappresentato all’ONU in qualità di auditore tutti i nativi del Canada e non solo. Nonostante io sia da sempre sensibile ai diritti delle minoranze, nonostante tutte le mie letture sui diritti umani e le diversità, ero partita con un bagaglio di stereotipi che ho visto sfaldarsi in poche settimane. Non ho visto o indossato perline; sciamani ne ho incontrati ma non li ho riconosciuti. Non ho visto tende come nell’immaginario collettivo, se non al “villaggio culturale”, ricostruzione per turisti e ricercatori: ho trovato case in muratura nelle quali mancava il camino, quindi i nativi spesso vivevano fuori.

E poi cosa hai visto, ancora?

Ho visto tende fatte con teloni da barca, da auto, da cantiere, con stanze collegate a due o a tre, da bassi tunnel o da ondulato. Ho trovato un popolo che con dignità si ostina a mediare tra il nostro modello di vita e il suo. Dimostrando anche di conoscere e di saper usare il nostro se necessario. I Cree non vogliono assistenzialismo, vogliono la ricostruzione della Nazione Cree, federata ma con una propria autonomia. Non un’oasi di turismo etnico ma uno Stato che investe in ricerca. Battaglie vinte, una dopo l’altra. Circa 10 anni fa, un avvocato nato in uno dei villaggi Cree più estremi, verso gli Inuit, è entrato nel Governo federale con una valanga di voti, molti molti di più di quelli immaginabili: forse il primo vero segnale di integrazione. A votarlo sono stati anche i canadesi.

Altri ricordi, Lorena?

Tra i ricordi che mi legano ai Cree ci sono quelli del loro incontro con il Papa. A Roma arrivarono in cinque. All’udienza, Papa Wojtyła sorprende tutti, rompe il cerimoniale, si alza e va verso l’allora capo del Gran Consiglio Cree, Metthew Coon Come.

E cosa succede?

Si fissano per una decina di secondi, pari ad un’eternità per noi. Il Pontefice lo abbraccia, dicendo: “Oggi sei un uomo, ma io quegli occhi li ricordo a Ottawa dietro allo striscione”. Era esattamente così, Metthew era stato alla guida del corteo che aveva accolto il Papa in Ottawa anni prima. L’emozione fu enorme. Di sera, c’era incontro con la stampa in uno dei ristoranti più noti di Trastevere, da Fortunato, al Pantheon. Il locale dovette ritardare la chiusura. Il giorno seguente Ted rinviò la partenza e passò ore in Rai a registrare interviste. Fu qualcosa di incredibile. Con alcuni dei colleghi intervenuti quella sera siamo rimasti amici, uno di loro divenne un mio capo in AdnKronos qualche anno dopo.

Torniamo alla scrittura. Il 2016 è un anno delicato per te. Mi riferisco all’infarto. Pubblichi una raccolta di poesie. Qual è il filo conduttore del tuo lirismo?

Nel 2016 da un lato, con l’infarto, la mattina del 24 maggio, c’è stata la percezione gelida di come può finire improvvisamente la vita; dall’altro ho sentito profondo il dono di una seconda possibilità, della quale fare tesoro. La perdita di persone care mi aveva insegnato il valore del tempo, qualcosa che nulla e nessuno può restituirci. Nulla ha valore come quel mistero che chiamiamo tempo. L’infarto ha rafforzato questa percezione e ha sicuramente concorso al mio “diventare poesia”.

Raccontaci…

Il 2016 è infatti anche l’anno della mia prima raccolta di poesie, “Torno subito”. Un libro che dà voce alla mia rinascita. Entrata da poco nel secondo mezzo secolo, ero uscita viva dall’infarto, avevo lasciato il giornale, stavo decollando come pittrice, e dopo molti anni di solitudine seguiti alla separazione, avevo accolto un uomo nei miei pensieri. Tutto bene… ma per poco.

Continua.

L’uomo con il quale avevo iniziato una relazione era un narciso patologico e presto ho iniziato a scontrarmi con le violenze psicologiche tipiche del manipolatore affettivo. La poesia assume importanza nella sublimazione del senso di impotenza che questa storia mi dava, in contrasto con la carica di un momento magico della vita, quello del mio rinascere. Sono circa 40 poesie che segnano altrettanti momenti di una doppia relazione, con me stessa e con il narciso. Una sorta di cronaca in versi nella quale però porto anche tutto il mio mondo mistico, musicale, letterario.

La scrittura è importante, terapeutica…

In passato tutto ciò che avevo scritto di privato lo avevo distrutto. Avevo la sensazione di violare qualcosa, di me e anche di altre vite. Non ho mai tenuto un diario e oggi me ne pento. Spesso avevo scritto racconti, distruggendoli subito dopo. La concomitanza di emozioni molto forti in pochi mesi ha fatto sì che la mia resistenza razionale cedesse alla follia: come intuì Martin Heidegger “i poeti sono i più arrischianti”. Si entra nel campo dell’irrazionale e non si sa, se e come se ne torna – per dirla con Umberto Galimberti.

Come ne sei uscita?

Io ne sono uscita, lasciando però aperto il passaggio al mondo sconfinato dell’irrazionale, al quale attingere il senso stesso della vita: che non è qui, è lì. Qualcosa che vive nella poesia come nella pittura, dove soprattutto le ultime opere sono puro irrazionale. In poesia, il contatto con il reale torna ma per sublimare, emozioni legate a condizioni di vita, o di classe, o di destino, o di sogno.  In poesia come in pittura il filo conduttore è una percezione interiore che viene lasciata libera, sempre più libera di esplorare l’ignoto.

Cosa hai pubblicato, nel tempo?

Oltre alle monografie ferroviarie, anche alcuni racconti di viaggio e qualche poesia che anticipa la seconda raccolta: “Navigare silenzi”, dove il filo conduttore sarà ancora quella ricerca della scintilla folle che conduce nell’oltre, nell’irrazionale che solo può aiutarmi a dare senso alla vita. Saranno poesie sociali, altre totalmente introspettive, altre ancora contemplative. E una sezione filosofica: amo correre sui pensieri dei filosofi, così come in una giostra di stelle. Trovo splendido quando Massimo Cacciari dice: rendiamo Leopardi alla filosofia. Provocazione? No. Leopardi, grande poeta trova dimensione anche nella lettura filosofica del suo intuire l’universo, il suo tempo e l’uomo.

Facciamo un passo indietro…

Facendo un passo indietro, alle mie pubblicazioni, mi piace sottolineare come “Torno subito” a tre anni dalla prima edizione, sia tornato in libreria l’estate scorsa alleggerito dal sofferto della relazione tossica che in parte lo aveva generato, per diventare liberamente poesia. Dialogando anche con frammenti di opere. Essere sperimentazione di me, in entrambe le dimensioni, scrittura e colore.

Quante sono invece le opere pittoriche da te realizzate?

Non moltissime, meno di un centinaio. Sperimento molto, studio molto. Ho momenti di creatività intensa ma poi ho periodi di decantazione, di maturazione assolutamente liberi che possono durare mesi e nei quali non tocco pennello. Fasi preparatorie ai momenti creativi. Molti, sono invece gli schizzi, gli studi, i bozzetti, le prove, le sperimentazioni di materiali. A volte queste sono splendide opere a loro volta ma non le metterei nel conto.

Chi è la poetessa da te apprezzata a livello italiano e anche internazionale?

Mi catturano Sibilla Aleramo e Amelia Rosselli. Poi, Armanda Guiducci, Antonella Anedda, anche se un po’ cupa. Mi piace Marcia Teophilo con il suo senso della vita. Ovviamente Alda Merini. Sul fronte internazionale due sono i nomi che mi scuotono dentro: Else Lasker Schüler, Anna Andreevna Achmatova. Interessanti anche Alejandra Pizarnik e Nina Cassian.

 Qual è l’ultimo libro che hai letto?

L’ultimo che è tornato sullo scaffale è “Octavio Paz. Anch’io sono scrittura. L’autobiografia” curato da Julio Hubard, un libro splendido, vibrante, nel quale Paz si mostra in una semplicità affabulatoria. Manca il passaggio del matrimonio con Elena Garro, altro colosso della letteratura messicana: è l’unico appunto che mi sento di fare a un libro splendido.

Lo leggerò.

Detto questo, però, ti rivelo un segreto: non sono mai riuscita a leggere un libro alla volta, neanche da bambina. Di solito ne inizio tre, anche quattro, e ogni sera leggo alcuni capitoli di almeno due di “loro” (per me sono vivi). In queste settimane sto rileggendo con occhi nuovi “Rayuela. Il gioco del mondo” di Julio Cortazar che amo immensamente, mente geniale.

E poi?

“L’amante” di Marguerite Duras. “Lei” di Lawrence Ferlinghetti, altra mente che mi cattura. E, appena iniziato “Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza” di Carlo Rovelli, una raccolta di articoli edita dal Corriere della sera. Rovelli è una figura che mi accompagna da anni nella scoperta della fisica contemporanea che di fondo, è la scoperta di me e del mondo. Sono libri che non hanno apparentemente nulla in comune ma che nel mio percorso si chiamano in uno stesso momento.

In merito alla pittura chi sono i tuoi prediletti?

Afro Basaldella, lo adoro. Giuseppe Santomaso, Tancredi Parmigiani, Emilio Vedova, Alberto Burri, Piero Manzoni, Lucio Fontana, Roberto Crippa. Osvaldo Licini. Fra le donne, straordinaria Carla Accardi; mi affascina anche Carla Prina, moglie dell’architetto Sartopris e figura sottovalutata dell’astrattismo italiano del Novecento.

Fra i viventi?

Fra i viventi, Vittorio d’Augusta, Vanni Spazzoli, Mauro Pipani e Luigi Bassetti, figura schiva ma interessante, Pier Domenico Magri, Rosa Spina, un tempo giovane allieva di Mimmo Rotella. Tulio Pericoli e Arnaldo Marcolini, ascolani d’origine. Angelo Rinaldi, che è anche contitolare della Galleria La Teca, con la quale collaboro da anni. E l’elenco potrebbe proseguire con nomi altrettanto interessanti.

E per gli stranieri?

Per gli stranieri sicuramente Pierre Soulages, Antoni Tapies, Joaquin Sorolla, Fritz Winter, Mark Rothko, Pollock; Zao Wou-Ki per gli asiatici. Immancabile Kandinsky e tutte le avanguardie russe. Magritte, ai suoi Amanti ho dedicato una poesia, così come alla Notte stellata di Van Gogh. Poi, Picabia, Arp. Dai Dada ai surrealisti, potrei impazzire in toto, dalla pittura al cinema, alla fotografia, fino alla poesia.

Dimmi…

Forse dovrei impazzire di più per altri mostri sacri del ‘900 che pur mi incantano ma non allo stesso modo. Infine un Maestro che amerei più di ogni cosa conoscere, è Gerhard Richter. Non mi addentro nei secoli andati, perché ci perderemmo. Cito solo tre grandissimi amori da sempre: Leonardo rivoluzionario in pittura come nel resto, Parmigianino e Caravaggio. Con un pensiero d’affetto al Crivelli di cui Montefiore dell’Asso conserva una stupenda Maddalena.

E per non farci mancare nulla parliamo di giornalismo. C’è stato un nome che ti ha ispirato? Magari un nome maschile e un nome femminile.

Il giornalismo vive una crisi/trasformazione senza precedenti che come categoria non siamo stati in grado di gestire. Si è lasciato che “la notizia” venisse letta “a tesi” e da lì si è fatta breccia alla spazzatura. Il resto è diventata questione economica, fino a tagliare la deontologia: costa troppo. In oltre 25 anni di lavoro, ho avuto molto da colleghi straordinari nei momenti “buoni” e in quelli di difficoltà. È stata una scuola di vita, giornalisti lo si è h24 e lo sai bene. Ho fiducia nelle generazioni che verranno, meno nella mia. Detto questo, rispondo volentieri alla tua domanda. Ti dico: Indro Montanelli e Giovanna Botteri. Una boccata di solidità.

So che hai un ricordo legato alla Sicilia. Ce lo racconti?

Era il 1994, mi sono trovata ad arrivare seconda ad un Premio giornalistico indetto dal Dopolavoro Ferroviario di Palermo con l’Ordine nazionale dei Giornalisti. Lavoravo da pochi anni, mi occupavo di trasporti, ero in redazione a Tutto Treno e scrivevo anche con assiduità per TuttoTrasporti (Domus). Arrivò il bando del concorso ma non ci feci caso, non pensavo di aver nulla di interessante da mandare. La redazione però spedì sia alcuni articoli su Tutto Treno, sia alcuni di TuttoTrasporti.

Continua…

Passarono settimane, fin quando un pomeriggio che ricordo ancora come fosse adesso, suonò il telefono. Ero a casa con l’influenza. Un simpatico collega palermitano, con il quale siamo rimasti in contatto per molti anni, Fabrizio Carrera, mi comunicava che ero tra i premiati e che sarei stata ospite della Regione Sicilia per la cerimonia di consegna. Potevo portare anche un accompagnatore: mi accompagnò mio marito.

Raccontami…

Furono tre giorni meravigliosi, di contatti, di nuove amicizie, di bellezza: le luci di Palermo sono indimenticabili, la raffinatezza del liberty siciliano, dei giardini, il Palazzo dei Normanni dove si tenne la cerimonia. Tutto fantastico. A guidarci in visita al palazzo un assessore regionale… preparatissimo. Ho ricordi meravigliosi. Stonavano solo le postazioni dell’esercito lungo i viali e la tensione ancora forte per l’attentato al giudice Falcone, due anni prima. Arrivai seconda al Concorso, ricevendo oltre all’attestato anche un assegno di 4milioni in lire. Prima fu Marta Boneschi, dell’Indipendente, per le sue inchieste sul Passante. Simpaticissima anche lei. Il terzo e il quarto posto andarono a colleghi della carta stampata siciliana ma con loro ci siamo persi. Con Fabrizio e sua moglie invece ci siamo rivisti anche sulle Dolomiti e a Verona.

Qual è la tua migliore virtù, umanamente?

L’ascolto. L’empatia, parola oggi abusata ma magnifica nel suo valore umano. Una caratteristica del mio carattere che considero un dono, che mi ha aiutata a stare bene e a portare gioia intorno a me.

Qual è il tuo peggior difetto?

L’incapacità di essere puntuale. Il mio rapporto con il tempo è egocentrico. Talvolta questo mi fa sembrare poco attenta ma non è così. Al contrario, spesso più una cosa per me è importante, più il bisogno di prendere fiato mi fa apparire distante, distratta. Se poi si entra nel mio tempo, so che vengo perdonata per tutto, ci si rende conto della semplicità con la quale vivo questo e altri miei limiti.

Lentamente stiamo uscendo dal tunnel della pandemia. Come hai vissuto questo lungo e brutto periodo?

Ho letto, scritto, dipinto, studiato moltissimo. Ho certificato l’inglese, ho fatto master sull’ambiente e su WordPress. Passato ore e ore al telefono e in chat. Ho sognato. Viaggiato con la mente: l’impossibilità di viaggiare fisicamente è stata pesante. Purtroppo, ho avuto lutti vicini: in famiglia e fra gli amici.

Mi dispiace profondamente.

Ho avuto dalla mia il fatto di vivere in un quartiere molto verde, ho potuto fare camminate, ho avuto buoni servizi, dai farmaci alla spesa. L’unica cosa, in piena emergenza, ho fatto fatica a trovare i guanti di lattice che uso per dipingere con le mani senza intossicarmi. Certo, ho sospeso i controlli medici, alcuni anche importanti.

Il lavoro ha sofferto?

Il lavoro ha sofferto: sono saltate tutte le mostre e gli incontri programmati. Però, paradossalmente, ho avuto contatti che ritengo “figli” della pandemia, collezionisti che costretti in casa hanno dato più attenzione alla ricerca di opere. Sicuramente ho pensato molto. E fra i segni di questo tempo resteranno i contenuti di un seminario sull’Agenda 2030, sull’Ambiente. Quanto contenuto in relazioni del Club Roma del 1968: all’interno c’era tutto quello che noi oggi chiamiamo emergenza e non sappiamo gestire. Dai flussi migratori alla pandemia. Avevamo tutto e non lo abbiamo usato, questo mi piacerebbe fosse oggetto di riflessione collettiva.

C’è ancora un sogno nel cassetto da realizzare?

Oh sì! Più di uno! Andando a ruota libera. Pubblicare un romanzo vincendo la timidezza. Imparare a suonare lo hang. Avere una mia galleria. Intervistare i 10 più grandi pittori al mondo. Vedere un mio quadro battuto da Sotheby’s. Vivere e lavorare tra Padova e New York.

MICHELE BRUCCHERI

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