flagelli
Immagine di guerra

“…I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati… Quando scoppia una guerra, la gente dice: Non durerà, è cosa troppo stupida. E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare. La stupidaggine insiste sempre, ce ne s’accorgerebbe se non si pensasse sempre a sé stessi”.  La peste di Albert Camus.

Pubblicato nel 1947, il romanzo dello scrittore francese premiato col Nobel per la Letteratura dopo dieci anni, presentò una scarna metafora dell’occupazione nazista e una più dettagliata cronaca del male sperimentato dall’umanità. Ma, durante queste giornate ancora segnate dal Covid-19 e dall’invasione Russa dell’Ucraina, lo si può rileggere per la potente capacità di evocare le molteplici risonanze del contagio e della guerra.

Rileggere Camus nell’epoca della pandemia e del nuovo confronto politico-militare tra i paesi della Nato e la Russia, lungi dal risultare un’operazione fuori luogo o inattuale, può aiutarci a capire perché “pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati”.

In questi anni invece siamo stati sommersi dal chiacchiericcio dei populisti, dalle paranoiche ricostruzioni dei complottisti, da una politica internazionale schiacciata dagli interessi finanziari delle oligarchie economiche e che ha dimenticato i veri problemi: la necessità di ripensare l’organizzazione dei sistemi sanitari per la prevenzione e la cura di ogni essere umano; per ricostituire l’equilibrio ambientale; per realizzare una “politica di pace” vera, effettiva per evitare le ragioni delle tante guerre regionali alimentate dagli interessi di chi costruisce armi, di chi si arricchisce vendendo tecnologie di morte, di chi lavora scientificamente per rendere il mondo sempre più ingiusto.

Dal romanzo di Camus ci sono due temi, tra gli altri, che emergono. Il primo riguarda la classica questione: Si Deus est, unde malum? Se Dio esiste, da dove nasce il male? Nel corso della storia l’interrogativo è rimasto centrale nella vita dell’uomo. Molti filosofi hanno tentato di darvi risposta. A chi – o a cosa – riconduciamo la morte, le guerre e tutto quello che di orribile c’è nel mondo? L’uomo è veramente libero di scegliere se essere o meno propenso a fare il Male?

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Pasquale Petix, sociologo e firma del nostro giornale

Il secondo tema ci tocca sempre nel profondo: la rinnovata consapevolezza dell’innegabile vulnerabilità umana. Perché dinanzi all’inconfutabile progresso medico, economico e tecnologico dell’Occidente la coscienza di questa fondamentale caratteristica degli uomini è stata completamente ignorata, trascurata, dimenticata?

La morte è divenuta una specie di “problema tecnico” da risolvere nel futuro prossimo attraverso gli sviluppi delle biotecnologie e dell’ingegneria biomedica: «All’inizio del XXI secolo è più probabile che l’umano medio muoia per un’abbuffata da McDonald’s piuttosto che per la siccità, il virus Ebola o un attacco di al-Qaida. Nella lotta contro calamità naturali come Aids ed Ebola i rapporti di forza si stanno sbilanciando a favore dell’umanità. È finita l’epoca in cui osservavamo atterriti e indifesi l’infuriare delle epidemie sul pianeta».

Questo scrisse alcuni anni fa in “Homo Deus. Breve storia del futuro”, Yuval Noah Harari, storico dell’University di Gerusalemme. È facile dire, oggi, quanto surreale risulti quest’affermazione. Ma la riconquista del senso della vulnerabilità da sola non basta, occorre comprendere che l’epidemia, la guerra ci devono aprire gli occhi perché è illusoria la pretesa di poter vivere ripiegati su sé stessi. Le guerre e il Coronavirus ci ricordano che non siamo “individui assoluti” o soggetti “sciolti da ogni legame”, ma siamo “persone-in-relazione”. Basteranno altri duemila anni a comprenderlo?

PASQUALE PETIX

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