Nei giorni scorsi s’è registrato l’ennesimo femminicidio: il ventottesimo dall’inizio dell’anno. Stavolta a Roma. Lunedì pomeriggio, infatti, è stata uccisa a coltellate Rossella Nappini. Sulla tragedia interviene la psicologa e psicoterapeuta della cooperativa sociale Etnos di Caltanissetta, Maria Giusi Cannio. La professionista lavora nelle case rifugio per donne vittime di violenza gestite dalla cooperativa presieduta da Fabio Ruvolo.
Il cadavere è stato ritrovato nel pomeriggio, intorno alle ore 17. La vittima era un’infermiera di 52 anni. Sull’addome presenti segni di ferite da arma da taglio. A chiamare il 112 è stato un condomino dello stabile che ha notato il corpo nell’androne del palazzo. Sul posto i poliziotti della Squadra mobile di Roma che hanno avviato le indagini.
“Ecco l’ennesimo femminicidio che porta con sé molti interrogativi e parecchie domande su come poter intervenire affinché fatti di questo tipo non si ripetano giornalmente – spiega la dottoressa Cannio –. L’infermiera uccisa a Roma viene presentata come una donna piena di entusiasmo, attiva e presente in famiglia, interessata alle politiche sindacali e soprattutto interessata, in prima persona, ad una raccolta fondi da devolvere ad una Casa per donne vittime di violenza”.
“Da questa descrizione emerge una persona autonoma ed indipendente che presenterebbe uno scenario diverso da quello a cui siamo abituati: donna legata all’uomo maltrattante per esigenze economiche, per la presenza di una psicopatologia, per proteggere i figli, per non sentirsi sola”, prosegue la psicologa e psicoterapeuta.
“A questo punto diventa necessario andare oltre alle solite teorie che alla base della violenza dell’uomo su una donna ci sia la cultura patriarcale – continua –. Oltre alla cultura androcentrica e maschilista (sicuramente presente in alcuni ambienti, ma non in tutti) ci sono le relazioni disfunzionali, le caratteristiche personali, la mancanza di identità, l’incapacità di accogliere i rifiuti, l’analfabetismo emotivo e le carenze affettive che descriverebbero meglio il perché una donna si lega ad un uomo violento o manipolatore e il perché ‘lui’ all’idea di averla persa preferisce ucciderla”, dice ancora la dottoressa Cannio.
“Un uomo che non sente il dolore che prova una donna ai suoi schiaffi, alle sue violenze sessuali, ai suoi divieti, alle sue umiliazioni psicologiche e infine alle sue pugnalate, è un uomo che segue solo il principio della propria individualità su chiunque. Potrebbe essere un uomo ‘mancante’ che è stato ammaliato dall’empatia di ‘quella’ donna con la sua capacità di cura, il suo modo attento di amare, la sua pazienza a perdonare, la propensione a giustificare, in altre parole che ha assaporato la condizione di sentirsi “amato senza se e senza ma”.
“Quest’uomo oltre lei e la sua approvazione potrebbe non trovare conferme e la sua vita, nel suo immaginario, è finita e il suo corpo inizia ad esplodere di rabbia, di frustrazione ed odio per ‘lei’ che ‘non vuole più starci con ‘lui’”.
“L’uomo, una donna, un ragazzo, una bambina, chiunque non abbia interiorizzato il proprio valore al di là dell’approvazione altrui instaura relazioni disfunzionali che compromettono la propria capacità di vivere serenamente e di riconoscere le proprie mancanze senza addossarle agli altri – conclude la dottoressa Maria Giusi Cannio –. Chi lavora nelle case rifugio per donne vittime di violenza, oltre a salvare una vita, si impegna a ridefinire le modalità che hanno mantenuto e confermato l’uomo violento nel suo essere e sentirsi ‘onnipotente’”.
MICHELE BRUCCHERI
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