di MARIA PIA GALANTE – IN PRIMO PIANO. Avvocato di Montedoro, con questi interventi puntuali e dettagliati ci fa riflettere sulla legge entrata in vigore circa un anno addietro

Con la Legge 19 luglio 2019, n. 69 entrata in vigore il 9 agosto 2019, legge nota come Codice Rosso, sono state introdotte importanti e incisive modifiche sia in materia sostanziale che processuale in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere. Una legge che finalmente emancipa dai tempi lunghi della giustizia alcuni reati, per aumentare la tutela delle vittime, e altri ne crea. Il codice rosso introduce, tra gli altri, il revenge-porn e importanti novità in tema di aggravanti e inasprimento delle sanzioni, ma anche di misure cautelari e di prevenzione. 

Particolare del “Ratto di Proserpina” (Bernini)

La diffusione illecita di immagini e video sessualmente espliciti senza il consenso della persona raffigurata, nota anche come Revenge Porn è diventata reato, colmando una lacuna normativa; difatti, il fenomeno oggi ha dimensioni notevoli collegate all’uso nella vita quotidiana dei social media e delle App che offrono servizi di messaggistica istantanea.

A partire da Agosto 2019 è punita dal nuovo art. 612 ter del codice penale la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, destinati a rimanere privati, senza il consenso della persona rappresentata. Sino ad allora, in Italia, l’unica tutela riconosciuta alle vittime era quella offerta dal ricorso ai reati di diffamazione, violazione della privacy, estorsione, oltre al rimedio civilistico con il ricorso ex art. 700 c.p.c. della rimozione delle immagini da Internet.

E’ evidente che la particolare diffusione di questa forma di offesa alla persona ha fatto risultare insufficiente questa tutela rispetto all’aggressività di particolari condotte, tanto che è stata introdotta una specifica previsione normativa volta alla tipizzazione della condotta e alla punizione con pene elevate. La norma così recita:

“Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video di organi sessuali o a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5.000 a 15.000 euro. La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento.

La pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravi-danza. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. Si procederà tuttavia d’ufficio nei casi di cui al quarto comma, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio”.

Il Revenge Porn può essere identificato nella pubblicazione o minaccia di pubblicazione di fotografie o di video, a sfondo sessuale, senza che vi sia stato il consenso alla diffusione da parte della persona o delle persone interessate. Il moltiplicarsi degli episodi di cronaca dimostrano che le persone offese sono state, in genere, legate all’autore del reato da un rapporto sentimentale; si tratta di coniugi, fidanzati, che agiscono in modo vendicativo alla fine della relazione per punire l’altro o l’altra per l’abbandono subìto, o solo per umiliare o ancora per controllare o restringere la spazio di azione della vittima, dietro la minaccia della pubblicazione di foto o video con scene sessualmente esplicite, realizzate in un momento in cui l’idea era quella di mantenerle nella sfera privata, o addirittura di immagini e video realizzati di nascosto, senza che la persona coinvolta ne fosse consapevole.

Ma può trattarsi anche di persone, diverse da un ex partner, in qualsiasi modo venute in possesso di foto o video, che diffondono il materiale non solo per ritorsione ma anche per estorsione. Quello che ha rilievo, in questi casi, è l’elemento della “viralità” della diffusione, che diventa incontrollabile, quando incontra una pluralità diffusa di “condivisori”. E’ interessante notare che, avendo la condotta sanzionata come terreno di diffusione i social media e le App che offrono servizi di messaggeria istantanea, la norma dell’art. 612 ter c.p. mira a punire anche la condotta di coloro che essendone venuti in possesso, “condividono” le immagini diffuse dall’autore del reato, perpetuando la condotta e la lesione a danno della persona offesa. 

A ben vedere, infatti, ciò che rende il fatto tanto più grave e pericoloso è, infatti, la “viralità” della condivisione online che fa sì che la lesione della riservatezza della vittima sia amplificata fino ad irreversibili conseguenze. La fattispecie è aggravata se il reato è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, ovvero da persona legata da relazione affettiva alla persona offesa; l’aggravante è prevista anche nell’ipotesi di fatto commesso con l’uso di strumenti informatici o telematici, oppure nei confronti di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica, o nei confronti di una donna in stato di gravidanza. Poste queste premesse occorre soffermarsi sull’uso del neologismo Revenge Porn e sui riflessi dello stesso sulla politica criminale.

Qualche riflessione sul neologismo Revenge Porn

L’espressione Revenge Porn è diventata di uso comune in Italia a seguito delle novità normative introdotte con il Codice Rosso, ma non è una novità nei paesi anglosassoni, nei quali troviamo l’espressione già nel 2007 nell’Urban Dictionary, nel quale la descrizione del fenomeno è riportata in questi termini “home made porn uploaded by ex girlfriend or (usually) ex boyfriend after particularly vicious breakup as a means of humiliating the ex or just for own amusement”; negli stessi termini l’espressione viene aggiunta nel Dizionario di Cambridge nel quale è definita “privatesexual images or films showing a particular person that are put on the internet by a former partnerof that person, as an attempt to punish or harm them”. E’ facile notare come nella lingua inglese se ne parli al femminile, mentre in Italia è in uso l’espressione Il revenge porn al maschile, quasi a voler sottolineare il maggiore peso del termine porn.

I riflessi del neologismo sulla politica criminale. L’espressione diffusa nel linguaggio mediatico per indicare la nuova fattispecie di reato prevista dall’art. 612 ter del codice penale non ha riscosso un comune consenso, sembra che manchi di una certa coerenza con il senso della norma e, soprattutto, con la tutela che la norma stessa deve accordare alla vittima, forse suggerendo nei confronti della stessa un senso di biasimo. Certo, colpisce subito e dà il senso della condotta, tanto che alcuni parlano di porno vendetta, altri di vendetta pornografica. Di vero c’è il riferimento al materiale diffuso, creato per restare nel privato. E, l’uso del termine porn, va chiarito nel senso che porno (dal greco pornè, pornòs), indica la consensualità di un atto e, nel caso in esame, la creazione consensuale di immagini e video di un momento intimo e privato.

Se, da un lato, la norma tutela e libera la vittima dall’onta che segue alla diffusione di un video o di una immagine sessualmente esplicita, dall’altro, il binomio usato, revenge porn, grava sulla stessa in quanto la sua condotta è collegata al termine “Pornography”. Il termine “porn” in questo contesto andrebbe liberato e ripulito dalla comune accezione di “pornografia” per ritrovare il senso espresso all’interno della norma di immagini o video di organi sessuali o a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, in quanto derivanti da atto consensuale svoltosi ed esauritosi all’interno di un contesto di coppia. Ciò che accade all’interno della coppia non è pornografia, o, più correttamente non dovrebbe essere considerata tale; pertanto, ne deriva che l’uso dell’espressione porn volto a catturare l’attenzione su questo fenomeno dilagante, nuoce irrimediabilmente alla vittima stessa.

Il Caso Cantone. E’ tristemente noto il caso di Tiziana Cantone, vittima delle conseguenze relative alla diffusione virale di un video contenente immagini a contenuto sessualmente esplicito. Per comprendere l’aggressività della diffusione virale basti pensare che nel caso Cantone i video, nei quali era ben riconoscibile la ragazza, sono diventati virali nel napoletano, sono stati caricati su siti hard, diffusi con Meme su Whatsapp e anche le parole pronunciate nel video sono state utilizzate in una clip su Youtube con 20 milioni di visualizzazioni. Tralasciando la ricostruzione del fatto di cronaca, dolorosamente a tutti noto, ci si vuole soffermare sulla vicenda dal punto di vista giudiziario, in quanto il fatto avviene in un tempo in cui non vi sono norme che tutelano espressamente la diffusione virale di contenuti privati. E’ una vicenda che permette di comprendere quanto sia stato difficile, in assenza di una precisa normativa, trovare una tutela adeguata. Sul fronte penale, la prima denuncia per diffamazione nei confronti degli amici, dai quali si sostenne ebbe inizio la diffusione virale del video, venne archiviata dal Gip del Tribunale di Napoli. Nel frattempo venne presentato ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c. per la rimozione delle immagini da internet, ma non venne riconosciuto alla Cantone alcun diritto al risarcimento del danno. Il Gip giunse alla medesima conclusione anche per la seconda denuncia per istigazione al suicidio, presentata dai familiari, dopo la morte di Tiziana Cantone.

MARIA PIA GALANTE (Avvocato)

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