Nella pittura di Pier Paolo Celeste, l’occhio non si posa: cerca, segue, a volte ritorna. L’artista romano, dotato di straordinaria sensibilità, è una delle voci più originali del panorama artistico italiano a livello internazionale. La sua ricerca si muove lungo traiettorie geometriche e numeriche, in una spirale costante tra ordine e vertigine. Lo abbiamo incontrato per entrare nel cuore del suo universo simbolico e razionale, e per approfondire il suo approccio a una delle opere più emblematiche: Metallica 7894.

Pier Paolo, grazie per averci accolto. È un vero piacere poter conversare con te e conoscere più a fondo la tua visione.
Grazie a voi per l’attenzione. Sono felice di potermi raccontare in un momento per me particolarmente sereno.
Come ha avuto inizio il tuo percorso artistico? C’è stato un momento decisivo?
È iniziato tutto in modo naturale, quasi inevitabile. Ho sempre sentito il bisogno istintivo di dare forma a ciò che vedevo o sentivo. Il momento di svolta è stato quando ho compreso che la geometria poteva diventare un linguaggio emotivo, non solo tecnico. Da lì ho cominciato a costruire un alfabeto visivo personale.
Hai iniziato fin da piccolo a esprimerti attraverso il disegno?
Sì. Da bambino scarabocchiavo già sui quaderni quelle che oggi riconosco come le prime tracce delle mie opere. Questo impulso creativo mi ha accompagnato per tutta la scuola. Ho studiato dai gesuiti, e il mio professore di storia dell’arte, forse inconsapevolmente, ha influenzato profondamente la mia formazione. Peccato solo che fosse un’ora a settimana e che spesso, distratti da interrogazioni in altre materie, non gli dessimo l’attenzione che meritava.
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Che ruolo ha avuto la tua famiglia nella tua crescita artistica?
Enorme. Ho avuto due genitori straordinari. Quando qualcuno mi definisce un grande artista, mi sento minuscolo rispetto a loro. A loro devo tutto. E poi ci sono i miei figli. Sono stati — e continuano ad essere — una presenza preziosa, una fonte silenziosa di forza e ispirazione. Ogni loro gesto mi ricorda che l’arte più grande è quella che si vive nel quotidiano, nell’amore, nella cura. Hanno dato profondità nuova alla mia visione del mondo.
Hai vissuto esperienze professionali all’estero. Quanto hanno inciso sul tuo percorso?
Moltissimo. Il mio ultimo incarico è stato in Russia. Lì ho apprezzato la disciplina e la naturale predisposizione dei bambini verso l’arte. I bambini sono come piantine: vanno annaffiate con cura fin da piccoli. L’arte, se data come nutrimento, sviluppa in loro capacità straordinarie.

Come vivi l’esperienza del museo o della galleria d’arte?
Dovremmo entrare nei musei con lo sguardo dei bambini. Avvicinarci a un quadro come se gli dicessimo: “Dimmi, dammi, insegnami a gustarti”. È un atteggiamento di apertura, di ascolto profondo.
Hai un’opinione precisa anche sull’accessibilità culturale…
Sì, e non posso nascondere una certa amarezza. In Italia, i biglietti per visitare le mostre sono spesso troppo costosi. Questo impedisce a molti di avvicinarsi all’arte. In altri Paesi le mostre sono gratuite o comunque a prezzi molto accessibili, ed è una scelta che arricchisce la collettività. L’arte deve essere per tutti.
E cosa pensi dell’abitudine di fotografare tutto durante una mostra?
Penso che l’esperienza artistica dovrebbe essere più intima. Scattarsi un selfie davanti a un’opera d’arte per mostrarlo sui social può avere poco valore se non si è realmente entrati in connessione con l’opera. Si rischia di uscire dalla mostra senza portarsi via nulla, se non un’immagine effimera.
Il tuo rapporto con il tempo oggi è cambiato?
Sì. Oggi ho più tempo libero e posso finalmente dedicarmi a ciò che amo senza stress. Prima, il lavoro mi portava spesso in giro per il mondo. Adesso coltivo vari hobby, come andare in barca e viaggiare con la mia famiglia. Lo scorso anno siamo stati in Puglia, una terra meravigliosa dove sicuramente torneremo: si mangia bene, i luoghi sono incantevoli e le persone incredibilmente accoglienti.
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Hai organizzato oltre 15.000 eventi in tutto il mondo. Come hai vissuto la tua prima mostra personale?
Con molta agitazione. Esporre significava mettere a nudo la parte più intima di me davanti ad amici, parenti, conoscenti. Ricordo che quel giorno evitai di osservare le espressioni del pubblico, temendo che non apprezzassero il mio stile. E invece ricevetti apprezzamenti sinceri, anche da nomi importanti del mondo giornalistico.
C’è una serie a cui sei particolarmente legato?
Sì, la serie Singapore. Mi recai a Singapore a trovare mia figlia che faceva un master subito dopo la sua laurea alla Bocconi. Durante un soggiorno lì, rimasi colpito dai colori vividi dei paesaggi e delle case. Scattai tante foto e decisi di riportare su tela quei toni intensi che mi erano rimasti impressi nella mente. Ma non è stato solo un viaggio ispirazionale: Singapore ha rappresentato per me anche un momento di profonda riflessione. In quella città, dove convivono ordine e creatività, ho trovato molte affinità con il mio linguaggio artistico. È lì che ho capito quanto la geometria potesse farsi meditazione, trasformando i numeri in armonia visiva. Una scoperta che ha arricchito la mia ricerca e rafforzato la mia vocazione.

Quando hai iniziato a inserire i numeri nelle tue opere?
Nel 2012. Prima non c’erano. Poi, improvvisamente, è scattata questa nuova esigenza. Ma non si tratta di numeri simbolici.
Quindi non hanno significati nascosti?
No. Prendiamo 8015: 8 sono i metri, 0,15 i millimetri. È semplicemente la lunghezza della riga usata. Il mistero è svelato.
Hai mai realizzato opere legate a persone care?
Sì. Ricordo un mio compagno di scuola che scriveva pillole molto toccanti sull’Avvenire. Si ammalò di sclerosi multipla. Realizzai per lui un’opera e, solo alla fine, mi accorsi che avevo inconsciamente inserito le sue iniziali nel quadro.
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I numeri sono ancora centrali nel tuo lavoro?
Sì. Per chi non mi conosce, possono sembrare simboli astratti. Qualcuno pensa che siano date, altri ci vedono concetti filosofici. Ma la verità è più semplice. Chi guarda è libero di interpretare, perdersi, ritrovarsi.
Parliamo di Metallica 7894. In quest’opera, la sequenza numerica sembra chiudere un ciclo visivo. Che ruolo ha il tempo nel tuo lavoro?
Fondamentale. Uso la ripetizione per creare un ritmo, una sorta di metronomo pittorico. Il tempo nelle mie opere è scandito, ma anche contraddetto. C’è movimento, loop, attesa. Nulla è mai statico.
C’è un legame tra la tua serialità numerica e la meditazione?
Assolutamente. Lavorare su questi pattern è per me una forma di meditazione strutturata. Ripetere, variare, modulare: tutto questo genera un ritmo che può avvicinare l’osservatore a uno stato di concentrazione, quasi mantrico.
Le tue opere nascono da uno schema preciso o da un’intuizione?
Da entrambi. C’è uno schema iniziale, ma durante l’esecuzione lascio spazio all’imprevisto. Spesso i piccoli “errori” diventano dettagli essenziali. È una danza tra controllo e libertà.
Che tipo di reazione ricevi dal pubblico?
Molti restano colpiti dalla precisione, ma ciò che mi interessa davvero è il silenzio che si crea. È in quel silenzio che capisco di aver colpito nel segno.
Qual è, secondo te, il ruolo dell’arte in una società iper-veloce come la nostra?
L’arte deve rallentare. Deve aprire spazi di sospensione. Io cerco di creare qualcosa che costringa lo spettatore a uno sguardo lento, metodico. È una forma di resistenza alla frenesia.
Le tue opere sembrano cercare un ordine in mezzo al caos. È così?
Sì. Uso il rigore per affrontare la complessità del mondo. Ma so bene che l’ordine perfetto non esiste. Ogni opera porta in sé una piccola crepa, una tensione irrisolta. E questo la rende viva.
Che consiglio daresti a un giovane artista?
Ascoltarsi. Senza fretta. L’intuizione è importante, ma è il rigore che la rende incisiva. E poi: non temere la propria unicità. È lì che si nasconde la vera forza.
*
Pier Paolo Celeste non cerca di stupire con gesti eclatanti. Il suo è un lavoro silenzioso, rigoroso, quasi ascetico. Ma è proprio in questo silenzio che si cela la forza del suo linguaggio: un’arte fatta di numeri, forme e anime che prendono vita sulla tela.
Un esempio emblematico è Metallica 7894 (2021, acrilico su tela, 50×70 cm): una composizione costruita su una griglia severa, attraversata da numeri e riflessi metallici. L’opera si presenta come una sorta di macchina del tempo pittorica: la sequenza numerica è al tempo stesso partenza e ritorno, in un loop concettuale che non concede tregua. Come scrive Angelo Bucarelli: “Scava in un mantra la sua intima ricerca per trattenere così il dispiegarsi della vita”.
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Metallica 7894: ordine e tensione esistenziale. Concludere un’intervista come questa significa molto più che tirare le somme di una carriera artistica: significa attraversare, anche solo per un attimo, il tempo interiore di chi ha fatto dell’arte un modo per abitare il mondo. Pier Paolo Celeste non dipinge per decorare spazi, ma per costruire luoghi in cui il pensiero possa trovare ordine, e l’anima — a volte — riparo. Le sue linee, i suoi numeri, non sono formule da decifrare ma ponti silenziosi verso una comprensione più profonda del sé e della realtà.
In un tempo che corre veloce, che consuma immagini a ritmo di scroll, il suo invito è chiaro: fermarsi, osservare, ascoltare il ritmo nascosto delle cose. L’arte, ci ricorda Celeste, non è una corsa al consenso, ma un atto di resistenza poetica. E forse la vera opera, quella più importante, non è nemmeno sulla tela: è quella che si attiva dentro di noi quando ci lasciamo attraversare, senza difese, da un gesto autentico.
ILARIA SOLAZZO
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